Il rigore metodo del tempo

Gardenrepublic/A ruota libera /inverno 2004

Votre rigorisme, votre amour du devoir ne proviennent que de votre goût naturel pour ce qui est sombre et amer” (Jaloux). Chi crede nella filosofia del rigore spesso ha il gusto innato per ciò che è scuro e amaro ed è oscurantista per contrastare il presunto lassismo dei tempi; casualmente i propri, ma l’atteggiamento mentale sarebbe lo stesso in qualsiasi altra epoca e il rigorista tuonerebbe comunque contro le mode (al suo sguardo, debosciate); se la prenderebbe con lo scarso senso altrui del dovere, sempre da anteporre al piacere; sorvolerebbe colpevolmente sull’esistenza della tolleranza che in questi casi è proprio il contrario di rigore. Dal punto di vista politico il suo è un ideale di ordine di destra, contrapposto ai disordini caciaroni di sinistra. Ci penso ogni volta che percorro la superstrada tra la cittadina piemontese di Romano Canavese e Ivrea e leggo la scritta a caratteri cubitali che campeggia sul pilone di un cavalcavia: “Ciao mamma buona giornata” e sotto la firma siglata R. Il rigore impone di compiere solo atti edificanti e di non imbrattare i muri; la volta in cui sono transitata da quelle parti in compagnia di un fior di rigorista contemporaneo l’ho sentito sbottare indignato: “Che tempi! I ragazzi hanno troppo, non gli basta più perdere la giornata a mandarsi sms, buttano via soldi per acquistare spray con cui fanno danni e disordini a nostre spese! Adesso chi va a imbiancare un posto simile?”. Eppure quel ciao mamma è una delle sollecitazioni massmediologiche più umane che sia dato di leggere sui muri della nostra civiltà lordati di pubblicità e insegne consumistiche. Immagino un ragazzo arrampicato in free climbing, appeso in bilico con le braccia lunghe abbastanza per riuscire a scrivere il messaggio a beneficio di tutte madri che ogni mattina si recano al lavoro a Ivrea e che, leggendo quella frase spontanea priva di un qualsivoglia rigore, provano per la vita un sentimento meno scuro e amaro. Per un attimo anzi del tutto chiaro e dolce, se ognuna di loro si lascia tentare dall’idea che l’autore possa essere proprio il giovane Riccardo, Renzo, Roberto o Renato che ha partorito.
Non che il rigore non serva. Recita il dizionario Devoto Oli della lingua italiana: “Rigida obbligatorietà dell’osservanza di una legge, di una norma, di un principio”. Al progresso della civiltà questo è sempre servito, non solo per produrre opere scientifiche (per loro natura rigorose, e due più due invariabilmente sempre quattro), ma anche di creatività artistica. L’Alfieri si faceva legare dal maggiordomo alla sedia per essere obbligato a mettere di fila con carta e penna parole che lo avrebbero consegnato alla storia. In tempi più vicini a noi, Ernest Hemingway per inventare storie da premio Nobel si sottraeva tutte le mattine alle tentazioni della pesca d’altura nei mari di Cuba, del farniente nel fresco giardino di casa sua alla Finca Vigia e dei mojito serviti al banco della Bodeguita del Medio. E nonostante fosse un bad boy ubriacone e corpulento che non poteva fare a meno della bottiglia, delle avventure di caccia e delle donne, la sua prosa è asciutta, astemia, casta, i suoi dialoghi rigorosi come l’autodisciplina a cui si sottoponeva in nome del dono innato della scrittura. Non è un caso che ad uno dei suoi racconti, “Un posto pulito, illuminato bene”, si faccia risalire l’inizio delle tendenze minimaliste attuali: un modo di esprimere rigore in arte, lavorando per sottrazione sino ai minimi termini, che può piacere o non piacere, ma che rappresenta di certo uno degli aspetti più originali e essenziali della cultura odierna. Al pari delle scritte buoniste sui piloni della superstrada Romano-Ivrea o di quelle prosciugate a grafismi della metropolitana di New York, della Porta di Brandeburgo a Berlino e dei centri commerciali di Tokio, questione di tempo e succederà anche a Pechino: luoghi accomunati da puri segni grafici tracciati da giovani sprezzanti di quei party bon ton della borghesia in cui è ancora “di rigore l’abito scuro”.
Il rigore sottomette alle regole della precisione gli ingranaggi ideologici e meccanici che scandiscono il tempo, come avviene per tutte le scienze esatte. L’orologio sposta le lancette con un ticchettio sempre uguale: ogni sessanta ticchettii un minuto, ogni sessanta minuti un’ora, ventiquattro ore fanno senza scampo un giorno. Se il tempo non fosse così rigoroso, ognuno se ne inventerebbe uno proprio, e la vita diventerebbe caos in balia dei surreali orologi molli di Salvador Dalì. Ma se è d’obbligo guardare l’ora per arrivare in tempo ad un appuntamento, è altrettanto vero che la troppo rigida osservanza delle leggi che governano il tempo può finire con lo schiacciare i malcapitati che ne accettano l’inflessibilità. Il giardino serve anche a questo, a far dimenticare l’angosciante scansione del tempo tiranno imposta dall’orologio, per trovare conforto al male più diffuso di questa epoca, lo stress. Una domenica si vada a meditare, per favore con tutto il tempo che serve per goderne, nei quindici ettari del giardino Pizzoni-Ardemani a Valsanzibio presso Abano Terme (PD), uno dei giardini formali più rigorosi che la storia dell’architettura paesaggistica abbia prodotto. Il monumento secentesco del tempo è là, la clessidra appoggiata al basamento e un pesante macigno a piegare la schiena di pietra di un tempo gigante dotato di ali, ma che non vola come vorrebbe il modo di dire; un macigno che schiaccia ogni giorno anche noi, vittime (spesso consenzienti e acritiche) di regole che hanno a che fare con il rigore. Svoltando nella grandiosa allée delimitata da pareti di verzura, salendo al centro del labirinto (uno dei più antichi che si siano conservati) e addentrandosi nel folto della vegetazione per raggiungere l’Isola dei conigli, ci si potrebbe sorprendere a canticchiare in segreto con lo chansonnier Paolo Conte “in controluce tutto il tempo se ne va”.

Difesa del rigor vitae
“La mort a des rigueurs à nulle autre pareilles” (Malherbe). Quando ho ascoltato questa citazione in un documentario trasmesso dalla televisione francese, ho avuto un sussulto di dissenso: credo di conoscere qualche rigor vitae più forte del rigor mortis. Potenza della pratica del pensiero l’uno, mero atto finale della natura sugli esseri viventi l’altro. Talvolta c’è dell’incredibile nei due rigori che si fondono, ed è ciò che mi ha fatta sussultare, in un cortocircuito mentale, quella volta seduta a guardare la televisione in un bar di Montpellier aspettando l’ora di un incontro. Il fotografo di guerra che muore scattando la foto di chi lo sta centrando con un kalasnikov, e chissà se osservando l’inquadratura nel mirino ha pensato “perdio, questa è la foto più forte della mia vita”, come ha ritenuto la giuria di un premio internazionale, quell’anno assegnato alla memoria. Ma prima ancora ho avuto un flash della tomba di Carlo Scarpa nel cimitero di San Vito di Altivole (TV), dove questo geniale progettista, mai laureato eppure per cinquant’anni docente universitario alla facoltà di Architettura di Venezia, ha avuto in morte ospitalità dai suoi clienti Brion, sepolti poco distante. La tomba che ha disegnato per sé ha il rigore poetico che la morte non ha mai e la lucidità serena di chi trova una catarsi alla fine fisica progettando un minuscolo, rigorosissimo fazzoletto di giardino come sintesi del proprio modo di pensare. In primavera a lato della lastra orizzontale in pietra che lo ricorda, chiusa tra austere pareti di cemento grezzo ad angolo sul limitare del cimitero, fiorisce una grande azalea rossa: almeno per un breve scorcio di stagione vince la vita, tutto l’anno vince l’idea di vita.
Che cos’è l’architettura dei giardini se non questo, un insieme di segni per dire vita con le piante? Vita interpretata in vario modo a seconda del momento storico, del prestigio dei committenti e del paesaggio circostante, dell’intellettualità del progettista, persino della maggiore o minore dose di presunzione, altalenante nei secoli, di poter dominare la natura e contravvenire alle sue regole. Con il rigore degli spazi destinati a giardino hanno giocato tutti i paesaggisti dal Cinquecento in avanti, quasi sempre esprimendo una visione di asciutta pulizia formale con l’uso di arbusti e alberi che si lasciano potare in forme geometriche senza ribellarsi. L’hanno chiamata arte topiaria e pare che a inventarla siano stati i Romani. Un pensiero riconoscente vada al bosso che scolpisce il giardino all’italiana di Villa Lante e le iniziali dell’antica proprietaria e dei suoi figli nel parterre di Vignanello, al leccio che si è fatto parete a Boboli e a Marlia, al carpino che ha disegnato un poderoso tunnel nel Sanssouci e ci sta riprovando nel discutibile restauro della Reggia di Colorno, al tasso che ha delimitato stanze e formato portali a Hidcote Manor e a Sissinghurst. Senza di loro il rigore dei giardini storici non esisterebbe se non come forma mentis del progettista.

Invito a ritrovare il rigore
Il est si commode d’être rigoriste dans ses discours!” (Laclos). Mi viene il dubbio che l’ascesa della borghesia come ceto sociale dominante abbia sottratto a tutto un’equa dose di rigore, ma provo a scacciare questo sospetto per non passare dalla parte dei parolai rigoristi ad oltranza. Sta di fatto che in giardino un perverso processo in tal senso sembra essere cominciato giusto a inizio Ottocento con la moda del giardino romantico all’inglese, più tardi degenerato e dilagato in sbuffanti tripudi di fiori popolari e in scene scopiazzate dalla natura ad uso di fanciulle svenevoli con pensé secche nel diario. Complice della trasformazione informale di tanti formalissimi e composti giardini architettonici dei secoli precedenti fu di certo quella signora tracagnotta e maledettamente ottocentesca che era la regina Vittoria; con le sue pruderie convinse gli inglesi persino a rivestire le gambe dei tavoli perché sempre di gambe si trattava e lei considerava riprorevole si mostrassero tanto quelle femminili che quelle di legno. Nei primi decenni del Novecento Virginia Wolf era ancora lì a lottare per liberarsi dai ciarpami dell’epoca in cui era cresciuta, e aver vissuto da vicino la stagione dell’avvento di Freud e della psicanalisi non le bastò a evitare il peggio: come se non fosse mai riuscita a ottenere una stanza tutta per sé, scelse il rigor mortis nelle acque di un fiume anziché proseguire la sua ricerca di rigor vitae alla scrivania.
In qualche modo i nostri piccoli giardini domestici, poco pensati e molto esibiti, poco progettati e troppo stipati di cosucce vezzose da garden center, sono ancora retaggio di un secolo pasticcione di impero vittoriano. In quando ai nuovi giardini di grande respiro (sempre più rari), il principio del rigore progettuale viene spesso praticato con altro che non sono le piante e nei casi migliori sconfina nella land art. Qualcuno vada a fare una passeggiata istruttiva nel parco della Fattoria di Celle, a due passi da Pistoia. Ci troverà più giardino nell’installazione di Beverly Pepper “Omaggio a Pietro Porcinai” che in alcuni giardini progettati dallo stesso Porcinai, per altro uno dei rarissimi architetti paesaggisti italiani che nel secolo appena passato abbiano lasciato un segno di rigore contemporaneo nel verde nostrano addomesticato. Per trovarne altri lungo lo stivale bisogna chiedere aiuto a paesaggisti stranieri molto coccolati dalle signore, a cominciare da Russel Page. Alla sua mano nel giardino della Landriana si sovrappose quella di Lavinia Taverna, una padrona di casa caparbiamente convinta di voler fare da sé con esuberante passione di giardiniera. E la passione porta sempre a grandi risultati, non necessariamente rigorosi. Anzi quasi mai.

Considerazioni manichee
Au sortir des rigueurs de l’hiver (La Fontaine). Me ne sto qui a fare stretching sul pavimento scricchiolante di castagno nel tentativo di annullare tutti i pensieri con la complicità del buio di questa sera d’inverno. E per distrarre l’attenzione dalle mie ossa che gemono e dai tendini che dolgono dopo una giornata uggiosa di computer, mi intrattengo chiedendomi di che colore è il rigore. Scandaglio nei pensieri e arrivo alla conclusione che è manicheo: come la perenne contrapposizione tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre di Mani il profeta (non l’ennesima setta New Age, ma una dottrina religiosa elaborata da un principe persiano del III secolo d. C. con pesanti ripercussioni sul cristianesimo), il rigore è sempre in bilico tra il tutto bianco e il tutto nero, tra assenza e somma dei colori. Inflessibile, totalitario, non cede ai mezzi toni pacati che inducono al relax, alla sollecitazione visiva delle campiture vivaci che mettono allegria, alla trasgressione degli accostamenti non previsti, che so: il bordeaux con il viola, il giallo con il verde acqua, il blu con il marrone. Mi attardo a evocare associazioni cromatiche sapendo che la risposta che mi sono data potrebbe essere stata influenzata dal buio della stanza e dal bianco della neve che ha appena sepolto questo posto di montagna: oggi qui i colori non esistono, niente cromoterapia, semmai solo stretching per mettere di nuovo insieme la schiena disfatta dai millibar minimi di pressione atmosferica. Ma so anche che nei giardini contemporanei che vogliono ritrovare il bandolo di un rigore perduto l’esclusione del colore è importante, fa spostare l’attenzione dalla teatralità sgargiante e facile di aiuole e bordure all’essenza del significato di giardino. L’estate scorsa Filippo Pizzoni ha vinto il “Premio Martini per gli architetti del paesaggio” realizzando un giardino segreto nella Villa Inferiore, o Castello Bruciato, di Villa Trissino Marzotto (Trissino, Vicenza) e nella terza stanza, delle quattro che ha allestito nell’edificio da quasi due secoli privo di tetto, non ha previsto altro che una tenda nera a oscurare l’ingresso. La brezza di giugno la faceva ondeggiare appena, rivelando a tratti un minuscolo scorcio di alberi e prato del parco. Con buona pace di Mani il profeta, quel nero non era tenebra, ma ricerca di resurrezione. Più o meno ciò che aveva previsto Vita Sackville-West praticando il rigore del pensiero compositivo per inventare il giardino tutto bianco di Sissinghurst Castle, ovvero “un posto pulito, illuminato bene” che sarebbe piaciuto a Hemingway, semmai Hemingway avesse riposto l’interesse per la pesca d’altura e per la caccia grossa facendo proprie invece le ragioni meno virili del giardino.

Solo perché è inverno?
Ma queste sono solo divagazioni a ruota libera di una sera d’inverno, con il tema del rigore influenzato dai rigori di stagione. Poi, au sortir des rigueurs de l’hiver, forse riaffiorerà un mai estinto spirito ridondante, barocco o peggio vittoriano, insito in tutti noi per insano orror vacui e invece di fare esercizio manicheo onde arrivare al nocciolo del giardino, a fine febbraio gioiremo per l’abito informale di forsizie e crochi e ancora una volta ci scoppierà la voglia di un arcobaleno di fiori.

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