Seduzione o seduzioni? C’è sempre un dizionario della lingua italiana pronto a decidere al posto nostro sui quesiti sottili. Ruoto sulla poltrona per prendere il Devoto Oli dalla libreria dietro la schiena e metto in fuga qualsiasi dubbio, dato che la prima accezione del sostantivo seduzione è ”istigazione alla colpa, al male, con allettamenti e lusinghe”. Mi tornano in mente gli occhi neri e spaventati della giovane donna con il capo coperto da uno scialle nero della campagna di Amnesty International “Mai più violenza sulle donne” insieme alla fondazione Pangea e, ahimé, agli orologi Breil. Per vendere, nient’altro che vendere, questo logo in una lunga e articolata campagna pubblicitaria fa ripetere a femmine dal piglio aggressivo don’t touch my Breil, lasciando intendere che è toccabile tutto il resto. Poi, in un rigurgito etico, rettifica momentaneamente il tiro e dalle pagine patinate dei giornali collega il brand alla scritta don’t touch my sister e ad un paio di occhi bruni di donna nei quali si legge la tragedia di essere stata tirata in disparte: alla lettera, la traduzione del latino seductio, seductionis, lo dice il dizionario Devoto Oli.
La nostra civiltà preferisce intendere per seduzione quella opposta e sfrontata delle femmine che istigano i maschi con allettamenti e lusinghe. Usando ricette a base di collier di brillanti come nella pubblicità Recarlo (slogan lampo: “sedurre”, con l’iniziale minuscola; ma il portafogli deve essere maiuscolo) e tacchi a spillo di platino, tempestati di 500 diamanti, del designer calzaturiero newyorchese Stuart Weitzman che le americane si contendono a suon di pacchi di dollari nell’intento di mostrarsi più appetibili. A rifinitura, le sedicenti arti seduttive contemplano rossetti, profumi, reggiseni push-up e quant’altro riesca a irretire le fantasie sessuali maschili. Celebrano questo genere di seduzione le divette televisive e fotografi come Marino Parisotto Vay (considerato uno tra i dieci maggiori fotografi contemporanei dalla rivista specializzata Photo), che in un servizio intitolato “Raffinate seduzioni” immortala giovani e semidiscinte vichinghe anoressiche in pose improbabili su cofani e sedili d’auto di lusso, spesso con tagli che evidenziano lingerie, ombelichi e tacchi a spillo perché, recita il sottotitolo, “la seduzione si nutre di particolari”. La questione seduttiva tra i sessi è vecchia quanto il mondo, ma che classe in confronto la schiava di Murecine! Sepolta nella lava del Vesuvio dal 79 dopo Cristo, è appena stata ricostruita virtualmente da una equipe medico-scientifica a partire dai suoi resti terreni. Aveva trent’anni o poco più, un volto gentile e una minuta corporatura rivestita da una tunica verde smeraldo; il bracciale d’oro con su scritto Dominus ancillae suae che portava racconta senza nulla mostrare la tensione esistente tra lei e il suo padrone.
Se ragiono a ruota libera con il buon vecchio Devoto Oli alla mano, non ho dubbi: il tema di questo numero di Gardenrepublic non può essere la seduzione, ma le seduzioni. Le altre, tutte le altre.Musiche
Sempre il Devoto Oli, in seconda battuta: “Fascino, capacità di suscitare un’attrazione viva o addirittura irresistibile. La seduzione del denaro, della gloria, della musica”. Ecco, la musica. Scomodo Arthur Schopenhauer, che mi perdoni: “Non esprime gioie, dolori, angosce, orrore, piacere o stati d’animo di pace particolari o definiti, ma la gioia, il dolore, l’angoscia, l’orrore, il piacere, la pace della mente stessi, nella loro natura astratta, essenziale, senza accessori e quindi senza i loro motivi abituali. Essa ci permette di afferrarli e condividerli pienamente in questa quintessenza”. Possiedo cassetti pieni di seduzioni, mi piace perdermi a guardare il dorso delle custodie dei CD per evocarle tutte: il Salve Regina di Pergolesi, la Nona di Beethoven, Tabula Rasa di Arvo Pärt, A love supreme di John Coltrane, Billie Holliday, i Pink Floyd, a volte funziona persino Boccelli con le romanze… Come chiamare con un nome diverso da fascinazione pura l’attacco della tromba di Chet Baker in “Alone Together”, dopo sedici secondi e nove note sospese nel nulla di Bill Evans al piano? Scomodo anche lo scrittore inglese Geoff Dyer, sperando che ne sia contento: “Sapeva tenere una nota con la tromba abbastanza a lungo da farla sembrare un’eternità. Finché durava, era come se non dovesse finire mai”. Nella terza di copertina del libro di Dyer (“Natura Morta con custodia di sax: storie di jazz”, Instar libri, 1993), una foto in bianco e nero di William Claxton del 1955. La luce colpisce sbieca le spalle nude di un bellissimo Chet Baker ventiseienne accovacciato che abbraccia la tromba e osserva con suadente intensità la sua donna del momento, la modella Halima, lei quasi di spalle e in controluce con un gomito appoggiato sulle ginocchia del jazzista, il lungo collo flessuoso teso verso di lui. Dentro ad una sola immagine, non la pretesa di visualizzare la seduzione come nelle fotografie di Parisotto Vay, ma mille e una seduzioni evidenti e recondite: la musica, l’amore, la giovinezza, la carne, lo spirito, la luce, la poetica fotografica, il cinquantenne che sarà, sdentato, drogato, incarcerato, suicida, la lapide terragna che lo ricorda al Burghausen Jazz Festival del 1981 con la sua firma nel bronzo… Ed evoca quelle note di tromba come carezze che paiono eterne, al pari di questi giorni di primavera in cui le gemme degli alberi hanno un ritmo estenuantemente lento a schiudersi e noi, con la fretta di un’epoca che non ha tempo di aspettare, a fare il tifo perché ritornino verdi subito tutte le chiome e sia già estate. Invece è nel ritmo sospeso che ha la natura a risorgere che sta la seduzione di stagione: impercettibili mutazioni di toni, velature bianche sugli albicocchi, rosa sui peschi, verde brillante sulla terra, giallo-verdi sui pioppi, argentei sui salici. Un giorno grigio di marzo e oddio, quest’anno la primavera non arriva più; un altro soleggiato e guarda qua: ieri ho pensato che questa volta il vecchio acero pseudoplatano in fondo al giardino è proprio morto e invece oggi porta acquerellati in punta di pennello sui rami colpi leggeri e appena percettibili di un verde macchiato di rame lucente che è un miracolo.
Stupore uguale a seduzione. Le quattro stagioni di Vivaldi in cuffia per guardare con altri occhi uno speccho d’acqua dove apparentemente non sembra succedere niente. E, con la mente che vola via grazie alla musica, finalmente lo sguardo si ravvede e coglie i riflessi degli alberi deformati dalla brezza primaverile che increspa appena la superficie fluida: pare un quadro impressionista, se aumenta il vento diventa un quadro dei macchiaioli. Vedo l’ombra di Narciso nel cigno che si rimira nell’acqua, come il cielo azzurro di primavera solcato da piccole nuvole sbuffanti che si fa largo tra le alghe e le carici, saluta i girini che si scaldano lungo le rive, il minuscolo insetto pattinatore che avanza a scatti a zampe divaricate sfruttando la tensione superficiale dell’acqua per rimanere a galla. Tutti gli animali usano armi di seduzione al tempo dell’accoppiamento, anche questo gerride sottile come una zanzara, sebbene in modo meno eclatante delle lucciole, ma più vistoso dei miliardi di microrganismi che vivono in una sola goccia d’acqua e si accoppiano in nome della vita senza dover dire alla partner “mettiti le calze a rete, che poi intrecciamo i flagelli, tesoro”. Più che la sublime e svolazzante leggerezza barocca di Vivaldi, per queste rarefatte scene di primavera ci vorrebbe Music for zen meditation di Tony Scott, ma chi se lo ricorda più. Presi come siamo dalle mode feng shui, dagli incensi per aromaterapia, dal take away cinese e da tendenze d’ogni genere che guardano a Oriente, un album di quarant’anni fa (1964) di un clarinettista americano che sperimenta i suoni orientali per 44 minuti praticamente da solo e dà ai brani titoli come “A quivering leaf ask the winds” è roba riservata a chi trova fascino seducente nel silenzio.La vita in concerto
Credo nella musica del silenzio offerta in concerto dalla natura quando si va per boschi e giardini: brusii di foglie mosse appena dall’aria, cinguettii, tonfi soffocati di frutti che cadono sul terreno, rapidi suoni di animali che si spostano, sommessi chiacchierii di acque, un impercettibile noise di fondo della vita che assorbe e cede energia con infaticabile costanza, seduce e si lascia sedurre secondo un disegno che ci sfugge… Affascinano l’udito, come piante e architetture verdi stregano la vista. Forse perché all’esterno delle mura di Villa Garzoni a Collodi c’è il paese di Pinocchio, con orde di ragazzini vocianti che si spintonano ai chioschi di panini alla mortadella, trovo che questo giardino sprigioni ormai un’invincibile tristezza. Altro che seduzione. Arrivo a credere che le sue statue cinquecentesche con arti e nasi mutilati, i suoi vasi di cotto sbeccati, le sue erbacce in competizione con i fiori sgargianti filologicamente scorretti (anche i fiori lo sono, talvolta) siano diventati lo specchio di ciò che sta fuori e non rispetta le armonie concertanti di un luogo progettato come un santuario della bellezza. Bellezza uguale seduzione. Mi è successo di fare lo stesso ragionamento anche visitando Bomarzo; c’erano le radioline appiccicate alle orecchie di padri, mariti e fidanzati che avrebbero voluto essere allo stadio, e i mostri lì nel bosco a fargli le boccacce. Con la radiocronaca delle partite per colonna sonora, il genius loci si era dato alla fuga e orchi, draghi, giganti, elefanti e ninfe non erano più le statue di metà Cinquecento scolpite nella pietra che Pirro Ligorio aveva previsto per il bosco magico di un principe Orsini innamorato, ma figuranti nella scenografia di un film alla Fellini di infima categoria. Struggente, perciò non ho mai più voluto tornarci. Dal che deduco che si viene sedotti, irrimediabilmente e per sempre, dai grandi giardini solo se si va in pellegrinaggio cosciente e con l’intenzione di dar retta al genius loci nella sua veste di direttore d’orchestra. Quella volta nel parco di Wörlitz, Alta Sassonia, mi sono fermata accanto alla statua di ragazza che, seduta sulla riva quieta presso il castello, da oltre due secoli guarda scorrere l’acqua assorta nei propri pensieri e l’ho invidiata. Era un capolavoro solitario di seduzione come il Köln Concert di Keith Jarrett, do you know? Sentivo le note di quel pianoforte emergere dall’acqua e le ho ascoltate con lei. E le giornate trascorse ai Kew Gardens lungo quasi trent’anni di visite ai giardini, tutte le volte uscendo a sera con i piedi doloranti per il troppo camminare ma risintonizzata con la musica del luogo che, come in una poesia di William Congreve, raddrizza anche le querce contorte. A Kew di querce ce n’è un’intera collezione, ma Congreve visse un centinaio di anni prima che venissero piantate e non poteva saperlo, solo che certe seduzioni sono universali e eterne.Quesiti
Distesa in un prato di fine aprile mi reggo sui gomiti per osservare da vicino gli inganni di una Ophrys perpetrati ai danni di ingenui insetti che visitano i suoi minuscoli fiori convinti di avere a che fare con una femmina della loro specie e mi chiedo se anche la natura non usi talvolta a sproposito le armi della seduzione. O, quanto meno, se non sia cinica e per mandare avanti la vita non si serva all’occorrenza di mezzi immorali. Ha dato al labello dei fiori di queste piccole orchidee di terra la forma degli insetti che devono visitarli per garantire l’impollinazione: tanto lavoro torna utile al regno vegetale, ma sfianca quello animale. Come faranno mai le energie a rimanere in equilibrio? Un giorno ci saranno tante orchidee e più nessun insetto? La primavera mette in testa strane domande e bisognerebbe essere quanto meno Darwin per trovare risposte plausibili. Torno a casa e espongo sul davanzale un mazzo di rose di stoffa, tanto belle da parer vere: voglio vedere se le cetonie che stanno rovinando le corolle appena sbocciate delle mie rose verranno a visitare queste liberandomi da un problema. Ma non compare nessuno; non dico una cetonia, un insetto qualsiasi. Quale seduzione in più ha una rosa stentata ma viva rispetto ad una perfetta, ma di stoffa?