Su Gardenia – novembre 2000
Un gioiello neogotico all’interno del giardino romantico di Palazzo Milzetti a Faenza dà occasione di ripensare al ruolo illusorio del giardino
In tutti i periodi della storia di trasformazioni e instabilità sociale l’umanità si aggrappa con nostalgia al passato, mitizzandolo, oppure dà fondo alla fantasia come rifugio e illusione liberatoria. Ebbe a scrivere Nietzsche: “Abolire le illusioni distruggerebbe l’umanità”. In questo senso l’arte dei giardini da sempre è una via di fuga perché promette bellezza e felicità contro un presente che non soddisfa o, come lo definisce il critico Rosario Assunto a proposito del fenomeno artistico neogotico, “decaduto e volgare”.
Oggi la ridistribuzione della ricchezza nella civiltà occidentale offre l’opportunità a molti di conoscere la consolatoria magia e la creatività intrinseca del giardino: non a caso si dice che balconi, terrazze e fazzoletti di terra annessi alle case sono “oasi” di quieto, colto e lento vivere ancora umano in antitesi ad un mondo in corsa e spersonalizzato. E anche il revival della campagna, a cinquant’anni dallo spopolamento della stessa, ha il senso di una inversione nella direzione della Natura Madre accogliente e serena, prodiga di doni e di messaggi pacati, e non chiassosi come sono invece quelli che ci circondano.
Il giardino, il neogotico, la voglia di campagna, la fantasia e il gioco di illusione sono le parole chiave per leggere un piccolo, prezioso gioiello racchiuso nel giardino di Palazzo Milzetti a Faenza. È un capanno rustico alto e stretto, realizzato in tronchi di legno e ricoperto di canniccio, che si è conservato piuttosto bene nonostante i sui 150 anni. Costruito nel 1851, l’hameau (termine francese che significa sobborgo, gruppo di case sparse, e imprestato all’architettura dei giardini; la radice è la stessa dell’inglese home, casa) rispecchia il gusto tipico dell’epoca. Appena passata la moda neoclassica per le costruzioni a forma di tempietto, con impliciti rimandi culturali alla classicità, a metà Ottocento il romanticismo impone i capanni come quello che si pensava dovesse costituire la dimora del “buon selvaggio” e dei Robinson Crosue che affascinavano i contemporanei. L’hameau di Palazzo Milzetti è del tutto simile al padiglione del giardino Les Fontaines di Chantilly, disegnato nel 1812 da Louis Martin Berthault e alle capanne dipinte da Hubert Robert, una delle quali, a Méréville, effettivamente realizzata e ancora esistente. È coevo del chiosco dell’Imperatore al Bois de Boulogne di Parigi (1852) ma, mentre questo mostra una certa malcelata pretesa di eleganza urbana, quello faentino appare ruvido e veritiero, sfoggiando tronchi nodosi e neppure scortecciati come struttura portante, riempita poi di altre porzioni di tronco ordinate e parallele. Minuscola, con una pianta di poco più di un metro quadrato, come una casa di elfi e di bambole, la capanna è inserita ai margini di uno specchio d’acqua delimitato da muretti in pietra e attraversato da un ponticello.Tutt’attorno il giardino con la sua canonica esposizione di cedri del Libano e tappeti erbosi, come voleva lo stile paesaggistico all’inglese.
Fantasiosa creazione di un’epoca di forti pulsioni (emotive e poco scientifiche) verso la natura ricreata, la capanna rivela all’interno la sua vera natura di divertimento illusorio al servizio del giardino. Legno vero e legno dipinto in trompe-l’oeil si confondono e sono la base di una ricca pittura iperrealista. Una parete intera sembra occupata da una vetrata che lascia intuire, oltre il panneggio della tenda, un grandioso paesaggio di acque e montagne che fanno da cornice ad un possente castello. Nelle intenzioni del pittore, cresciuto nella stagione della nuova borghesia, doveva essere questo il paesaggio più ambito e più rappresentativo dello status symbol dei suoi committenti, in una città provinciale di pianura.
Una mensola corre tutt’attorno in alto su tre lati e nasconde, tra le suppellettili, bottiglie, vasellame e canestri, gli strumenti di un invisibile giardiniere lasciando intendere che la casetta è un regno segreto, un rifugio minuscolo e il ricovero di ciò che serve a governare le piante e i fiori che stanno fuori. Infatti all’ombra di un falcetto e di uno scarificatore c’é un foglio illusorio sul quale sta scritta la poesia: “Qui Clori sotto rustico/Tetto sen ven talor/A riposare a scegliere/Semi di piante e fior/ che germogliare e crescere a cari suoi desir/Poscia far di Zefiro/I tiepidi sospir”. Poco più in là un libro appoggiato di piatto consente di leggere sul dorso il titolo “Il botanico coltivatore” e, di taglio e aperto sul frontespizio, un altro volume che, non a caso, si chiama “Dell’arte de giardini inglesi”; in basso a sinistra porta la scritta 1851, lo stesso anno di costruzione dell’hameau. Un paio di forbici pende negligentemente dal chiodo infisso nella cornice di uno specchio e, arroccato su una finta mensola, un finto busto antico domina un finto cartiglio, esplicativo di questo improbabile segnatempo: “Fia seren se in prospetto/È la mia testa./Se verso destra miro/O neve, o vento/Del ciel vario a sinistra/È l’argomento/Se il volto ascondo, avrai/Pioggia o tempesta”.
Gli oggetti inanimati sono dipinti con mano così veritiera che potrebbero trarre in inganno circa la loro bidimensionalità ma, confermando l’ipotesi di Hegel che l’arte può produrre solo illusioni parziali, un gatto dallo sguardo più perplesso che puntato con istinto felino su un uccello in gabbia rivela nella sua eterna fissità allibita l’illusorietà del tutto.
“Noi chiamiamo illusione una credenza quando, nel motivarla, è prevalente la realizzazione di un desiderio e non teniamo conto, nel farlo, dei rapporti di questa credenza con la realtà. L’illusione stessa rinuncia ad essere confermata dal reale”. Qualche decennio dopo la costruzione dell’hameau, così scriveva Sigmund Freud.
L’hameau di Palazzo Milzetti con il suo segreto tesoro dipinto rivela allora che in tutte le epoche e in tutti i contesti il giardino appartiene ad una dimensione a sé, lontana dalla ovvietà delle cose reali.