Esotico: la percezione richiede partecipazione

da Gardenrepublic – Anno 2005

Quale fascino esercita l’esotico nella civiltà occidentale contemporanea? Enorme, a maggior ragione quando (prima o poi succede a tutti) si insinua la voglia di un altrove che promette di redimere e rendere più edonistica la vita. Basta con il gelo e gli abiti formali, per quanto firmati: alle Hawaii si vive in pareo tutto l’anno; basta strafogarsi di lavoro, essere taglieggiati da insostenibili gabelle, frequentare salotti ed eventi per presenzialismo obbligato: si va alla spiaggia in mattinata, si pesca e si cucina lì sulle braci il pescato, una nuotata nell’acqua calda, poi ci si crogiola al sole e quando ci si è arroventati a puntino non si deve far altro che cogliere un frutto di papaya o di guaiava e gustarlo all’ombra di un palmizio. A tempo perso si intrecciano collane di ibischi dai colori accecanti, e come niente viene sera.

L’esotico come via di fuga da una realtà che ci va stretta. Da qui il successo turistico di Filippine e Seychelles, assaggio veloce perché a tempo determinato di quell’altra vita che ambiremmo gustare lentamente a tempo indeterminato. Quando uno tsunami non ci risveglia tragicamente dal sogno. Da qui anche la fortuna della molto più abbordabile e rassicurante Florida per orde di americani, che si guardano dallo spingersi un metro più a sud, dove inizia l’esotico vero con i suoi problemi. E i balli latino-americani, così allegri, sensuali e tanto di moda, è più sicuro praticarli nelle discoteche di Miami, dopo una giornata trascorsa a Disneyland o a fare shopping. Sempre che l’annuncio di un uragano dal nome carino in arrivo non induca a far le valige da un esotico immaginato a misura della propria cultura e non della realtà e della natura.
Avrei dovuto riflettere, la volta che nel giardino storico tedesco di Woerlitz mi sono soffermata davanti alla statua antica del ragazzo che cerca di togliersi una spina dalla pianta del piede. Non avrei dovuto sorridere ritenendola bizzarra per quel gesto così poco formale: camminare scalzi nella natura selvaggia a noi occidentali può fare del male, come non è mai successo agli aborigeni dello spinosissimo outback australiano, ai masai kenioti a caccia di leoni nella savana e agli ascetici fachiri indiani.

Nella civiltà di massa contemporanea il concetto di esotico è essenzialmente legato ai luoghi della terra che emanano un fascino selvaggio e sempre meno a quella sfumatura, segnalata dal dizionario Devoto-Oli, di “affascinante ricercatezza” che colpì gli esploratori d’antan davanti al Kilimangiaro, ai vasi Ming, ai monumenti Maya e alle orchidee delle foreste tropicali, ovvero in vista della stupefacente bellezza diversa di paesaggi, civiltà e natura “stranieri”. Questa la traduzione letterale dell’aggettivo greco eksoticós: straniero.
Ai nostri occhi corrotti è più facile che profumi di esotico la modella Naomi Campbell, anche se più stressata e in fuga della gente comune che popola questa civiltà, anche se il maggio scorso, per festeggiare il suo trentacinquesimo compleanno, non ha scelto un’isola sperduta dell’Indonesia o la Patagonia, ma Cannes all’epoca dell’evento mondano del festival cinematografico. Ovvero uno scenario che è il concentrato di quanto partorisce il mondo in cui ci muoviamo e dal quale meditiamo di scappare. Prima di dar corso ai festeggiamenti con ballerini brasiliani e torta d’oro oversize calata da una gru, ha rilasciato l’intervista che è di rito in queste circostanze: “Ragazzi, fate una vita sana, state lontani dalle droghe”.
Se i giornali avessero cognizione di ciò che è davvero ancora esotico, pur in un pianeta globalizzato, anziché pubblicarle avrebbero considerato squittii insulsi le raccomandazioni somministrate da un simile pulpito. Qualcosa sulla falsariga del “Credere obbedire combattere” di fascista memoria che ancora campeggia a lettere cubitali sulle facciate cieche di cascinali in disarmo. Se i giovani del 1935 avessero irriso le parole d’ordine lanciate da un mediatico pulpito romano e amplificate capillarmente sui muri di tutta Italia, non avrebbero finito i loro giorni anzitempo in Etiopia, là giunti non certo per voglia di esotico, ma per credere, obbedire e combattere in nome di un imperialismo straccione in cerca di buoni affari sulla pelle dei popoli.
Gli stessi affari che sono sottesi come disperante e replicante filo comune tra il bel volto della Campbell, pronipote immemore degli schiavi africani trapiantati di forza nelle piantagioni di cotone americane, e quello dai tratti incredibilmente somiglianti ai suoi della donna etiope nel deserto in cerca d’acqua per dissetare la sua famiglia; l’una nera drogata dai paradisi artificiali prodotti dai contadini afgani e colombiani per un boccone di pane, ma lucrosissimo businnes delle mafie internazionali; l’altra “negra” e drogata dalla fatica di rimanere viva nonostante le guerre straccione prima e i problemi ambientali della sua terra nel disinteresse generale, poi.

Eppure nella storia l’afflato verso terre lontane e le aspettative create da ciò che è estraneo e straniero, e dunque esotico, hanno funzionato da portentoso volano di conoscenza, di economie, di progresso. Affermava l’attore Mickey Rourke con una battuta secca nel film “Dimer” di qualche anno fa: “Se non hai sogni, hai incubi”. Gloria agli uomini che hanno saputo calarsi nel proprio sogno sino in fondo. A quello che ha guidato Cristoforo Colombo verso la scoperta delle Americhe, con tutte le conseguenze dirompenti del caso, e prima ancora ha portato Marco Polo verso Oriente. A voler andare alla fonte della nostra appartenenza mediterranea, un sogno di onnipotenza guerriera ha messo in contatto i Romani con persone e cose diverse d’ogni genere, dalla Scozia al Nord Africa. Per gli inglesi lo stesso sogno si è avverato un bel numero di secoli più tardi con l’espansione coloniale dei tempi d’oro.

Più che a Colombo e a pomodori, patate, zucche, dalie, nasturzi, tagete, girasoli che grazie a lui giunsero nel Vecchio Continente dal Centro America, il mondo dei giardini deve molto alle febbrili esplorazioni botaniche degli inglesi tra Settecento e Ottocento. Rispetto alla rivoluzione che quest’epoca ha provocato tra le piante destinate a ornamento, sono poca cosa le raffinatissime introduzioni cinquecentesche di bulbi da parte del signor Busbecq, che pure sfociarono in Olanda in un fenomeno sociale e economico che va sotto il nome di tulipomania. Il glorioso Settecento inglese riempì casse di piante, semi e fogli d’erbario tra India e Giappone, tra Messico e Argentina e li spedì in patria, dove a un certo punto fu ovvia la necessità di un’istituzione come i Kew Gardens per lo studio della flora di tutti i luoghi della terra. E Joseph Banks, che di Kew divenne direttore e acquisì per meriti scientifici il titolo di Sir, nel suo ruolo di viaggiatore avido di nuovo e fortunato fece invidia persino a Goethe: “Il mio cuore ha molta brama per tutta la gioia che può dare il vasto mondo, come Banks e Solander che percorrono l’Universo.”

Nel libro “Il giardiniere appassionato”, (Adelphi, 2003), Rudolf Borchardt racconta di quella stagione lunga e unica: “Quando nel 1849 la Victoria regia fiorì per la prima volta a Chatsworth, dietro la colossale ninfea di quel laghetto inglese c’era una guerra durata cinquant’anni. Questa pianta infatti era stata scoperta fin dal 1801 da Haenke in un affluente del Rio delle Amazzoni, da Bonpland e Humboldt nel 1827, da Poeppig nel 1832, da Schomburgk nel 1837 e ancora da Orbigny nel Rio de la Plata, nel Paraguay: ma soltanto nel 1846 era stato possibile trasportarla, per nave, in Europa. A tale ostinato impegno, che rende onore eterno allo spirito umano, si deve il fatto che, nel giro di un secolo che non aveva aerei ma solo vecchie navi lente, e nonostante il terrore che incutevano le foreste vergini, i deserti, la ferocia dei selvaggi e delle fiere, il pericolo delle epidemie tropicali, fu possibile per l’Europa vedere, toccare, studiare la flora del mondo intero.”
Mi piace entrare nei pensieri di vivaisti e giardinieri di allora alle prese con quella cornucopia traboccante di piante straniere che promettevano possibilità di coltivazione e gratificazioni estetiche. Ma nel momento stesso in cui esse vennero introdotte massivamente in coltura, e dilagarono con successo tra aiuole, parchi e davanzali di ragazze vittoriane, persero le valenze esotiche per trasformarsi in presenze domestiche. Così è stato per buganvillee, glicini, ortensie, bambù, cactus, orchidee, palme e per un numero infinito di altre piante che da due secoli appagano i giardinieri e ormai appartengono al paesaggio coltivato di casa nostra.
Per trovare ancora atmosfere esotiche che abbiano il significato di affascinante ricercatezza, dalle nostre parti bisogna visitare giardini mediterranei come La Mortella a Ischia o il Biviere a Lentini in Sicilia. Più che le piante, è la tensione creativa di Lady Susana Walton nell’uno e della principessa Maria Carla Borghese nell’altro a restituire all’esotico la sua reale, originale essenza.

Personalmente ho quasi sempre un cattivo rapporto con ciò che è in odore di esotico. Il nome stesso mi suona sempre più sinistro, in un mondo globalizzato che vede la civiltà nella quale mi riconosco diventare via via sempre più dipendente dal Far East e non solo. Persino le nocciole della varietà piemontese “Tonda Gentile delle Langhe” che servono alla produzione di una gloria nazionale come la Nutella adesso le producono in Turchia e in Argentina, perché dovrei rallegrarmene?
Nella vita come in giardino mi sembra che esotico suoni ridondante, modaiolo e consumista a poco prezzo. Io non ho nulla da cui fuggire e se sogno una vacanza lontano dalla mia tana alpina è per incontrare altre persone e altri ambienti che, con la mia stessa tensione, mirino a preservare le loro radici dagli assalti stranianti dell’omologazione. Razionalmente, senza fanatismi e senza portare in processione ampolle riempite d’acqua alle sorgenti dei fiumi delle nostre rispettive terre. Chiamo tartara il sushi perché fa parte delle mie abitudini alimentari prima che diventasse giapponeseria di moda e ho il cuore in allarme quando mi regalano un’orchidea tropicale in fiore, perché so che d’inverno avrà vita dura tra gli spifferi e con la temperatura e l’umidità basse della mia casa. Vorrei che nell’Occidente in difficoltà fosse la natura a prendere il sopravvento, come rivincita sulle opere dell’uomo; non i rovi dell’abbandono delle campagne, ma le piante spontanee rigogliose e imperiose di boschi, fossi, sabbie litoranee e rocce montane, che della natura italiana denunciano la forza e dell’ambiente lo stato di salute. Ho trovato una complice in questo desiderio nella paesaggista Annachiara Vendramin di Padova, che la primavera scorsa alla bella mostra di giardinaggio vicentina “Villa da Schio in fiore” ha presentato una vecchia Cinquecento Fiat colonizzata da piante, fiori e muschi e ha chiamato l’installazione “Post operam – Archeologia naturalistica”. Per quanto sorridente e giocoso, un puntuale stimolo a riflettere.

E poi faccio fatica a individuare il confine tra ciò che è esotico e che cosa invece non lo è. Per esempio: nell’ambito delle piante ornamentali qual è lo spartiacque? So che sono di origine lontana e estranei alla nostra flora i gerani e le camelie, ma sono definibili esotici, oppure l’appellativo vale solo per le dature, le palme e le piante del vivaio La casina di Lorenzo, seminate da Davide Picchi per assetato amore di conoscenza e collezionismo come gli inglesi del Settecento? Vige la regola della rusticità al gelo invernale, l’aspetto estetico o che altro?
Io, per me, ritengo sufficiente il sentimento che ho provato un giorno recente alla Villa Arconati di Castellazzo di Bollate (MI), durante la premiazione dell’edizione 2005 del “Premio Martini per gli architetti del paesaggio”. All’ora del tramonto la scena attorno alla broderie di Milena Matteini, che ha vinto il concorso, trasudava quell’affascinante raffinatezza straniera segnalata alla voce “esotico” dal Devoto Oli. Ma, più dei mostri alati in pietra dell’antica fontana-scalinata, più dei vetri azzurri previsti dal progetto, a catturarmi sono state le luci radenti della sera che disegnavano i contorni di una infinita distesa di carpini e di laurocerasi in forma topiaria in contrasto con una quinta esuberante di pioppi industriali fuori dai confini del giardino.

Io, per me, riesco a riconoscermi solo in un esotico vicino perché mi sono data gli strumenti per partecipare a quello. E, come recita un’opera dell’artista Adele Casacuberta in mostra sino al prossimo 6 novembre alla Biennale di Venezia, “la percezione richiede partecipazione”.

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