Premio Martini – Tra paesaggio e siepi potate

pubblicato su Gardenia – agosto 2001

Che cos’è l’arte topiaria e esiste in Italia la possibilità di praticarla? I grandi giardini del passato possono incontrare il presente, confrontarsi, evolversi, oppure sono  immobili, dimenticati testimoni di un passato prestigioso ripiegato su se stesso? E qual è il confine tra l’artista e il paesaggista, e tra questa figura di professionista ancora poco considerato nel nostro Paese e l’architetto del verde?
Sette giovani paesaggisti hanno accettato la sfida di fare il punto su questi interrogativi, rispondendo nel più eclatante dei modi: progettando altrettanti spazi all’interno di due splendidi giardini storici della Lucchesia su invito di Grandi Giardini Italiani e mettendosi in gioco per tutto lo scorso mese di giugno alla prima edizione del “Festival di arte topiaria”. Scenari d’eccezione il parco di Villa Grabau e il contiguo parco di Villa Oliva-Buonvisi a San Pancrazio, sulle colline che da Lucca portano all’Abetone, in un territorio che detiene insieme al Viterbese il record della più alta concentrazione al mondo di giardini storici.
Così racconta la genesi della manifestazione Judith Wade di “Grandi Giardini Italiani”, che l’ha promossa: “Dopo il convegno internazionale sull’arte topiaria che abbiamo organizzato l’autunno scorso, ci è venuta l’idea di offrire l’opportunità ad alcuni giovani architetti del paesaggio, che avessero già dimostrato attitudini, personalità e motivazioni molto forti al riguardo, di mettere alla prova il loro talento. Una commissione di 15 persone non appartenenti al mondo dei giardini ne ha segnalati sette, ai quali è stata data la possibilità di scegliere all’interno di Villa Oliva-Bonvisi e Villa Grabau la zona per il loro intervento. La prima sorpresa è stata che i sette paesaggisti hanno scelto subito sette luoghi diversi. A mio parere è la dimostrazione che il genius loci parla ad ognuno di noi in modo diverso, stimola la nostra fantasia, la nostra voglia di spiritualità e di azione con modalità molto personali.”
L’incanto della manifestazione è derivato proprio da questa molteplicità di modi di intendere il territorio e le sue peculiarità, l’arte topiaria e il ruolo del paesaggista. C’è chi ha adottato un registro graffiante in senso proprio (“Tracce” di Antonini, Capecci, Sini), chi una dimensione onirica (“Teatro di verzura” di Sophie Agata Ambroise), chi una provocatoria essenzialità per rispettare la natura del luogo e la sua energia (“Luoghi ritrovati” di Patrizia Pozzi). Massimo Semola ha rotto le rigorose simmetrie del giardino formale all’italiana disassando una composizione altrimenti classica (“Equilibri”), Antonio Perazzi ha reso dinamica la situazione esistente di forme topiarie con nuove piante a sfera lasciate rotolare su un declivio e integrando la scena con elementi simbolici della tradizione locale (“Il giardino del giardiniere”). Marco Bay (“Il giardino di Vittoria e Ludovica”) ha proiettato sul giardino il segno architettonico degli ovali che ornano la facciata della limonaia di Villa Grabau, trasformandoli in elementi vegetali, mentre Francesca Belli Paci (“Topiaria storpiata”) ha reinterpretato la loggia cinquecentesca progettata dal Civitali a Villa Oliva-Buonvisi, allestendo di fronte alle poderose colonne di pietra di Matraia le sue modernissime colonne di acciaio, che portano in cima sottili archi spezzati, simbolo del rapporto con la natura e con la cultura classica che l’uomo ha interrotto.
Proprio la Belli Paci affronta il problema dell’equivoco intorno al concetto di arte topiaria. “Nel linguaggio corrente si intende la capacità di modellare le piante in forma di scultura, ma topiarius ai tempi di Cicerone era il giardiniere, colui che modella il paesaggio, crea terrazzamenti e chiaroscuri, scolpisce il territorio. E’ questo il nostro lavoro, di cui diamo un saggio in questo festival. Qualcuno ci ha rimproverati di fare della land art, ma non è vero, perché non siamo scultori che collocano la loro opera nel paesaggio, al contrario ce ne serviamo come materia prima del nostro lavoro.” Poco più che quarantenne, Francesca Belli Paci era l’architetto paesaggista più “vecchio” della manifestazione, un’anzianità professionale di una dozzina d’anni che non ha appannato il contagioso entusiasmo giovanile e la carica di impertinente voglia di sperimentare, provocando: “Perché le piante del mio allestimento sono in parte potate e in parte no? Nella mia idea il giardiniere si è stancato, se n’è andato a fare un giro lasciando lì pezzi e piante non potate, che chiunque può raccogliere e utilizzare nel proprio progetto”. Sorride ironica e conclude: “Se davvero qualcuno lo facesse, vorrebbe dire che la topiaria davvero esiste ancora”.
La provocazione è stata, in molte forme, la risposta più evidente alla sfida lanciata da “Grandi Giardini Italiani”. I sette paesaggisti l’hanno ostentata e imposta con grande sicurezza, segno che, nonostante la giovane età, hanno maturato esperienze professionali ed elaborato uno stile personale a sufficienza per potersi concedere il lusso di ribaltare i canoni, di superare insegnamenti omologanti, di articolare in piena libertà creativa interventi dissacratori o, al contrario, ossequiosi della grandezza della Natura. Il tema e i due giardini storici lasciavano spazio al dubbio se intendere l’ars topiaria come ai tempi di Cicerone o come nel Rinascimento, se servirsene per valorizzare i luoghi densi e suggestivi della manifestazione o per mettere alla prova la duttilità delle piante. La paesaggista più giovane, Sophie Agata Ambroise, specializzata a Versailles e operativa a Milano da soli due anni, ha cercato di mediare tra il significato del segno progettuale e il suo amore istintivo per le piante, tra natura e artificio. Ha affermato: “Sono giovane, e sarà lavorare la terra che mi manterrà giovane”. Le ha fatto eco Massimo Semola, molto affascinato dall’idea della collega: “Io ho fatto la scelta di lavorare con le piante e con elementi naturali. Per questo la mia installazione si integra perfettamente con il luogo, come se ci fosse sempre stata. E’ l’opposto di “Tracce”, che lo si vede per differenza: un effetto strepitoso salendo dal viale di accesso di Villa Grabau, ma le piante non hanno più un ruolo”. E infatti per il trio Antonini, Capecci e Sini “in quest’occasione non è più la vegetazione ad essere modellata, ma la superficie stessa del giardino, che diventa materia plasmabile”. Hanno aperto lo studio Land-I per progettare insieme un allestimento destinato all’edizione dello scorso anno del Festival International des Jardins di Chaumont sur Loire e adesso hanno vinto il Premio Martini. Sollevano prati artificiali davanti a mirabili facciate neoclassiche e poi affermano “I giardini storici sono luoghi dell’archeologia tra i più vulnerabili, dove bisogna intervenire con estrema cautela”. Forse sono loro la sintesi più pregnante di una nuova generazione di progettisti, che promettono al territorio italiano un futuro meno opaco.

Sette paesaggisti raccontano la loro opera
Roberto Capecci, progettista a Villa Grabau con Raffaella Sini e Marco Antonini di “Tracce”, che ha vinto il “Premio Martini per gli architetti del paesaggio”. “Siamo partiti da una riflessione sull’arte topiaria come modo di modellare la vegetazione. Abbiamo pensato di rendere tridimensionale il prato antistante a Villa Grabau, che ci è piaciuto subito per il suo rapporto equilibrato con la facciata. Una immaginaria, enorme mano graffia il prato e ne solleva quattro nastri. Dal suo gesto emergono le tracce di quattro mondi: i semi sono il Regno Vegetale; gli ossi di seppia il Regno Animale; i cocci di mattone le civiltà del passato; il metallo rappresenta la tecnologia. Avremmo dovuto sollevare davvero il prato, ma per un’installazione temporanea non si poteva intervenire in modo così drastico. Abbiamo allora deciso, artificio per artificio, che tanto valeva usare il prato artificiale”.

Massimo Semola, autore di “Equilibrio”: “Non appena ho visto Villa Oliva-Buonvisi e lo spazio erboso davanti alla facciata principale, ho desiderato collocare una fontana, ma era troppo banale. Ho analizzato gli elementi del giardino: le siepi potate, il prato modellato, le vasche d’acqua e, ricordando l’impianto formale e statico del giardino rinascimentale, ho deciso di trasformarlo in un allestimento dinamico, dove tutto è asimmetrico, compresa la scultura di Stefania Scarnati rotante sull’acqua, candida come quelle antiche in marmo di Carrara, ma realizzata in tecnopolimeri industriali, per la prima volta usati nell’arte. Il cerchio dell’acqua e quello del prato bombato sono disassati e le cinque siepi, che formano una stella attorno al bacino, sono potate in forma irregolarmente squadrata. Da questa asimmetria mi piace che nasca una nuova stabilità, e mi piace che questo lavoro non sia immediatamente riconoscibile come un intervento contemporaneo. Non essendo possibile progettare qualcosa di nuovo nelle ville antiche, perché le Belle Arti ti bloccano ancora prima di vedere il progetto, grazie a questa manifestazione potrò dire di essere riuscito comunque una volta in vita mia a inserire qualcosa di moderno in un contesto antico”.

Sophie Agata Ambroise, autore di “Teatro di verzura”: “Ho scelto questa stanza segreta del giardino di Villa Grabau in modo inconscio. La parte del mio progetto con gli allori legati resta strettamente topiaria, mentre il teatro in fondo, con la vegetazione libera e scapigliata, è la sorpresa, l’opposizione che, per contrasto, fa tornare vive le forme dell’arte topiaria. L’idea del percorso è stata abbastanza forte, con il blu del fondo che diventa sempre più intenso, gli allori che si infittiscono e, alla fine, il palcoscenico che rivela altra materia vegetale, altre textures, altre luci e altre sottigliezze delle piante. Vorrei che ogni visitatore trovasse le sue suggestioni e filtrasse la dimensione onirica a modo suo. Per la realizzazione devo molto a Didier Berruyer e alla sua capacità di lavorare in modo libero, plastico e con grande competenza botanica. Alla fine siamo persino andati insieme a rubare piante di Ferula ai bordi di strada della Lucchesia, per aggiungere ancora luce e senso ai suoi lupini, alle angeliche, alle graminacee in scena…

Marco Bay, progettista di “Il giardino di Vittoria e Lodovica”: “Non ho avuto dubbi sulla scelta della limonaia di Villa Grabau: la facciata, i portoni, gli ovali bugnati, la siepe altissima sono semplicemente magici. Così ho pensato di ripetere nel prato gli ovali della facciata, uguali di forma ma via via più grandi allontanandosi dall’architettura, cosa che deforma un po’ la prospettiva. Volevo che l’intervento non fosse pesante, perciò ho usato materiale lieve come la paglia, che ho dipinto in giallo citrino. Ho aggiunto Agapanthus e Tulbaghia per dare colore all’arte topiaria, da sempre monocolore. Avevo previsto di coprire gli ovali di paglia con fasce di salice intrecciato, frutto della magnifica creatività di Anna Patrucco, ma nel corso dell’allestimento ho preferito impiegarle per formare delle linee di definizione dello spazio tra l’architettura e il prato. Che cosa significa il titolo? E’ un omaggio alle mie figlie appena nate…

Francesca Belli Paci, progettista di “Topiaria storpiata”: “Ho reinterpretato ciò che c’è a Villa Oliva-Buonvisi: le colonne, la pavimentazione di ciottoli bianchi e neri, le piante. Ma l’ho fatto pensando all’emozione delle sculture sospese di Calder, al rosso cardinalizio del Concistoro promosso qui nel Seicento dal proprietario, il cardinale Francesco Buonvisi, a come inglobare la “Vaschetta dell’angelo” antistante la mia installazione, alle pennellate di colore che oggi si possono dare in giardino utilizzando le piante che quattrocento anni fa non c’erano. Oltre ai limoni e ai bossi della tradizione ho usato, proprio per i loro cromatismi, azalee giapponesi, Prunus cistena, Cornus variegati, Euonymus, lavande e una cascata di gelsomini sulla fontana”.

Antonio Perazzi, autore di “Il giardino del giardiniere”: “L’arte topiaria serve a rappresentare le due anime del giardino formale all’italiana, una fatta di geometrie, l’altra di fiori. Così ho scelto un tratto di sentiero del giardino superiore sul lato sud di Villa Oliva-Buonvisi e il relativo tratto di scarpata che lo raccorda con quello mediano in corrispondenza delle Cascatelle. Nel vialetto ho fatto convivere, con le conche di agrumi esistenti, strutture in legno che reggono piante da fiore profumate. Quando mi sono accorto che la siepe di tasso alle spalle della grossa canfora era interrotta, ho pensato di far rotolare attraverso il buco, sino all’acqua della fontana sottostante, delle piante potate a sfera. Ho scelto Camelia sinensis per ricollegarmi alla tradizione delle camelie nella Lucchesia. Poi ho aggiunto grossi nidi sferici di rami intrecciati, una sorta di memoria delle Ricicolone toscane, una festa d’estate durante la quale i bambini andavano in giro con sfere di carta illuminate all’interno da candeline. Ho inseguito un’idea di circolarità, di qualcosa che si chiude su se stesso”.

Patrizia Pozzi, progettista di “Luoghi ritrovati”: “Ho scelto un luogo ricco di energie e la scelta delle foglie è nata da un fatto del tutto casuale: abbiamo trovato per terra una foglia gigantesca, argentea, che non appartiene a nessuno degli alberi del parco. Dove sta scritto che per fare un giardino si devono usare solo le piante? Io credo moltissimo all’istintività nella mia professione. Per rapportarmi con la presenza forte del bosco di lecci di Villa Oliva-Buonvisi, un bosco eccezionale che di suo ha un’energia fortissima, ho chiesto semplicemente allo scultore Simon Benetton di Treviso di riprodurre quella foglia. Mi auguro che questo festival sia l’inizio di una serie, l’inizio di una liberazione da modi e stili. Perché esistono solo energie che chiedono di essere condivise”.

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Scommesse italiane
Sono in tanti ad aver creduto a questa prima edizione del “Festival dell’arte topiaria”, segno che i tempi sono maturi anche in Italia per iniziative di alto profilo attorno al mondo dei giardini. Ci hanno creduto per primi i proprietari delle due ville, la famiglia Grabau e la famiglia Oliva. Luisa Oliva ha detto di aver accettato l’idea con coraggio e molta curiosità. “Mi piace che, se abbiamo deciso di aprire al pubblico i nostri giardini, essi diventino partecipi dell’innovazione. Non bisogna fermarsi mai, neppure nelle proprietà antiche, perchè anche lì la natura si evolve. E’ stato bello incontrare i paesaggisti, persone piacevolissime come tutti coloro che amano la natura e lo spazio. Spero che l’esperienza abbia un seguito: è un bel modo di far sapere che esistono questi luoghi mitici, sconosciuti soprattutto in Italia”.
A metà giugno, mentre la manifestazione era in corso, è stata annunciata la seconda edizione, che si svolgerà il prossimo anno a Roma e avrà come titolo “Parterre”. Grazie anche all’encomiabile generosità e all’entusiasmo della Martini e Rossi che, cogliendo in pieno il senso del festival, lo sponsorizzerà nuovamente insieme al “Premio Martini per gli architetti del paesaggio”. Quest’anno è stato assegnato a “Tracce” di Antonini, Capecci e Sini. Il Comitato del Premio, formato da Florisa Gatti della Martini e Rossi, Nani Prina direttore di “Ville e Giardini”, Eliana Ferioli direttore di “Gardenia” e “Airone” e Judith Wade, presidente di “Grandi Giardini Italiani”, ha scelto l’allestimento dei tre giovani architetti romani “per l’innovativo proposito di rivisitare il tradizionale rapporto tra vuoti e pieni tipico della topiaria. Attraverso l’uso di piani vegetali sottratti al verde del parterre, hanno realizzato nel paesaggio antropizzato un suggestivo segno spaziale ed una intrigante “traccia” interpretativa dell’ars topiaria del Duemila”.

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Certi grazie dovuti
I paesaggisti, concordi, hanno ritenuto che le loro installazioni non avrebbero potuto esistere senza il fondamentale contributo dei vivaisti e realizzatori del verde che si sono lasciati coinvolgere nell’avventura, faticosissima, ma prestigiosa per il loro lavoro e per le loro piante. Massimo Semola ha ringraziato pubblicamente Andrea Pagani di Flora 2000, che ha seguito passo a passo il progetto e ha organizzato l’uscita dal vivaio di famiglia di Budrio (BO) di 40 metri cubi di pacciamatura, che hanno richiesto sette camion per il trasporto, di parecchi rotoli di prato e di 250 piante di viburno tino, coltivate per mesi in apposite fioriere per facilitare l’allestimento delle siepi. Sophie Agata Ambroise ha programmato tutto in grande sintonia con Didier Berruyer del vivaio Il giardino vivace di Santa Margherita (LU), dichiarando che si è lasciata guidare dalla luce e dalle atmosfere delle piante coltivate dal suo conterraneo: sono entrambi francesi che hanno messo radici in Italia. Alla vittoria di “Tracce” ha contribuito Piante Mati di Pistoia; i colori vivi della “Topiaria storpiata” di Francesca Belli Paci si sono materializzati grazie alle piante di FLM di Gemonio (VA), le piante preziose de “Il giardino del giardiniere” di Antonio Perazzi provenivano da Floricoltura del Lago Maggiore di Cerro di Laveno (VA) e la realizzazione di “Luoghi ritrovati” di Patrizia Pozzi è stata curata da Hortensia di Milano.
Infine, una segnalazione a parte va alla curiosa corteccia tinta di blu cobalto scelta dall’Ambroise e messa a disposizione dalla ditta francese Agresta (tel. 0033-3293369885, fax 0033-329369581).

Un pensiero riguardo “Premio Martini – Tra paesaggio e siepi potate

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